2013 - Aprile - India: Elephanta (Mumbai)
da:
Antonio Tabucchi - Viaggi e altri viaggi (Feltrinelli)
Elephanta
Davanti a Bombay, a una
decina di chilometri dalla costa, c’è una
piccola isola coperta di vegetazione che
anticamente si chiamava Gharapuri. Oggi il suo
nome è
Elephanta, come la ribattezzarano i portoghesi
per via dell’enorme elefante di basalto che vi
trovarono e che nel 1912 gli inglesi collocarono
nei Victoria Gardens di Bombay.
Nonostante le ingiurie del tempo e degli uomini,
i templi cavernicoli di Elephanta sopravvivono
nel loro straordinario splendore; straordinario
e impressionante, perché una sensazione di
disorientamento che assomiglia a un vago terrore
si impossessa del visitatore occidentale che,
dopo aver salito trecento gradini di pietra,
attraversa il buio apogeo che porta alle grotte
sacre più celebrate probabilmente più belle
dell’India induista.. La Trimurti che domina le
grotte col suo sorriso enigmatico (Brahma il creatore, Vishnu il conservatore e
Shiva il distruttore) provoca un indefinibile malessere. E anche
Shiva che balla il Tandava, la danza che scuote il mondo, è
un’altra immagine che lascia attoniti. Fuori, sotto una luce
violenta, abbaiano brutte scimmie appollaiate sui rami di una
vegetazione che Guido Gozzano nel suo fantastico libro
Verso la cuna del mondo definì “demente”.
E’ mattina. Sono arrivato con il primo traghetto. Il tempo è
deserto, eccetto un’anziana coppia giapponese silenziosissima
che ha fatto il viaggio sul mio stesso battello. Penso ai
portoghesi, i primi europei che visitarono questo luogo, a metà
fra l’incubo e la perfezione estetica. Il mio
guide book, con il
linguaggio adatto a chi fa i viaggi in jet,
definisce i portoghesi un popolo intollerante e
fanatico, a causa dei gravi danni che arrecarono
alle sculture. Intolleranti e fanatici furono
senz’altro, ma probabilmente per la prima volta
concepirono il cosmo come un’idea terribile e
assurda e capirono di essere stupidi, limitati e
ottimisti.
Foto scattate con lo smartphone